Space Electronic Superstudio

Piero Frassinelli

Riccardo Benassi e l'architetto-archivista di Superstudio parlano di suoni e luoghi, dal Mach2 ai rave party

a cura di Riccardo Benassi

L’artista Riccardo Benassi ha studiato e lavorato con gli architetti di Superstudio per la realizzazione di diversi progetti come Autostrada Verticale e Attimi Fondamentali, e ha più volte dichiarato la centralità del loro pensiero nel recentissimo progetto Techno Casa. A lui abbiamo chiesto di fare due chiacchiere con Piero Frassinelli, architetto e archivista del gruppo dei radicali toscani. Discutono di musica, della discoteca che Superstudio ha progettato, il Mach2, di rave party, di evasione e di antropologia.


 

Riccardo Benassi: Caro Piero, sembra incredibile a dirsi – ma nonostante le infinite chiacchierate che ci siamo concessi negli ultimi anni – c’è ancora qualcosa che non mi hai mai raccontato, o meglio, un argomento che abbiamo già sfiorato ma sul quale non siamo mai andati nello specifico: il rapporto tra Superstudio e il suono. E direi, in parallelo, con gli spazi destinati all’ascolto e alla danza. So che non ami ballare, ma che in compenso hai una naturale predisposizione all’ascolto…
Piero Frassinelli: Per la maggior parte della vita del Superstudio, il nostro rapporto con la musica è stato condizionato dalla posizione melofobica di Natalini il quale sosteneva che la musica finiva con Pergolesi, o Frescobaldi, non ricordo bene ma il periodo era quello. Solo dopo la chiusura del Superstudio la sua posizione è cambiata credo per influsso di Roberto Barni.

Bene, iniziamo con lo sfatare quell’immagine celebrativa che identifica gli albori di Superstudio con un contemporaneo think tank di giovani festaioli con il sorriso rivoluzionario stampato in faccia. Mi stai dicendo che in realtà Superstudio lavorava in silenzio…
P.F.:In studio non si ascoltava musica; la colonna sonora della nostra vita era un affare privato;

In studio non si ascoltava musica; la colonna sonora della nostra vita era un affare privato

io, dopo aver avuto un rifiuto precocissimo per Sanremo e dintorni, mi sono riconciliato con la musica leggera a partire dai Platters e poi negli anni dell’università ascoltavo Joan Baez, Bob Dylan, ovviamente i Beatles, Hendrix, Janis Joplin (amatissima). Quando andai negli USA (1972) tornai con una serie di dischi, comprati in un remainders ma che per l’Italia erano di grande avanguardia, tra cui Jefferson Airplane, Canned Heat, Iron Butterfly. Per la musica italiana solo De Gregori, Venditti, e pochi altri. Credo che le prime musiche di altre tradizioni che ascoltai furono quelle di Ravi Shankar, anche se durante le proiezioni del Festival dei Popoli (Festival cinematografico organizzato dall’omonima associazione senza scopo di lucro a Firenze a partire dal 1959) avevo potuto ascoltare e apprezzare musiche di tutto il mondo. Appena ebbi i soldi, e cominciarono a trovarli in Italia, iniziai a comprare i dischi di Suoni dal Mondo ma anche dischi di tradizione italiana come quelli della Nuova Compagnia di Canto Popolare di cui andavo anche a vedere i concerti. Ero amico di un gruppo di musica popolare, organizzato da Andrea Nerone, un ragazzo di Mondragone che studiava a Firenze ed era un bravissimo chitarrista (chitarra battente); si organizzavano spesso serate in casa; ciò avveniva anche nelle case degli altri Superstudio (anche in quella di campagna di Natalini), ma si facevano anche serate con altri strumentisti e cantanti, soprattutto Iraniani (studenti universitari rifugiati a Firenze perché braccati dalla Savak dello Scia) alcuni molto bravi. Sono stato un fedelissimo ascoltatore (le registravo sul mio Philips, sono recentemente scomparse) delle trasmissioni Rai di “Chiara Fontana” dove etnomusicologi come Diego Carpitella facevano ascoltare e spiegavano le registrazioni raccolte dal vivo nelle ultime comunità in cui sopravviveva la tradizione musicale italiana.

chiara fontana
Articolo di Paolo Toschi sul Terzo Programma della Rai, di “Chiara Fontana” dedicato alla musica popolare italiana

 
Il tutto era infarcito dall’ascolto della musica classica concertistica con predilezioni per l’800 russo, francese (amatissimo Erik Satie) e spagnolo e per il primo 900 anche italiano. Invece non ho mai amato l’opera e la musica da camera salvo rare eccezioni. Ecco in breve il panorama mio e del Superstudio sull’argomento che, come al solito, diverge in più punti.

Mi piacerebbe che tu mi raccontassi degli anni in cui Superstudio ha realizzato la discoteca Mach2 di Firenze. Era il 1967 e so che tu sei entrato a far parte del gruppo proprio nel momento in cui Adolfo e Cristiano stavano ultimando il progetto, mi sbaglio?
P.F.: È vero, quando sono entrato nel Superstudio era in corso la realizzazione del Mach2. Non ho avuto alcuna parte né nella progettazione né nella realizzazione, ma visitai i lavori e rimasi impressionato dall’approccio progettuale, a quella situazione spaziale non certo facile. Si trattava infatti di una cantina labirintica fatta di piccoli ambienti oscuri. Il progetto consisteva, se ricordo bene, in un percorso segnato da una plafoniera luminosa in lamiera forata di colore magenta metallizzato che conduceva, dalla scala di accesso, alle varie stanze; qua e là c’erano sedute di mattonelle lucide (mi pare blu) che assumevano anche forme di sculture; su una di queste ci facemmo una foto di gruppo (la mia prima foto Superstudio) a piedi scalzi.

Mach2 © Superstudio, dettaglio della plafoniera forara

 

 

Quindi il Mach2 è la location della tua prima foto come membro di Superstudio! Nonostante le tue parole funzionino meglio di qualsiasi documentazione (e nonostante io sia leggermente troppo vecchio per appartenere alla generazione Tumblr) non ti nascondo che vorrei vedere quella foto di gruppo… E sapere anche qualcosa di più sulle mattonelle che si trasformano in sedute che si trasformano in sculture che – in questo istante – si trasformano in ricordi.
P.F.: Credo sia stata la prima, subito prima di quella sulla piramide delle Cascine usata per il manifesto di auguri del natale 1968. Da una prima veloce ricerca non sono riuscito a trovarla, spero di poterlo fare in seguito, non è molto pubblicata quindi non è facilmente reperibile. Se riuscirò a mandartela vedrai che le sedute che si trasformano in sculture non sono un granchè misteriose, sono semplicemente tre gradini (o quattro?) alti 40 cm l’uno e noi siamo seduti sul secondo con i piedi (nudi) sul primo.

Prima foto di gruppo di Superstudio, sugli scalini del Mach2
Prima foto di gruppo di Superstudio,
sugli scalini del Mach2

 

Ti chiederei – così a bruciapelo e conscio della prospettiva occidentale che sottende la domanda – se ti sembra plausibile immaginare la discoteca come l’architettura liberatoria / sperimentale per eccellenza.
P.F.: Non mi pare; già allora e credo ancor più oggi la musica da discoteca è condizionata dalla moda e dal mercato e per ciò stesso condiziona i fruitori. La musica è di per se stessa un fenomeno liberatorio anche nell’ambito dei suoi rituali ma credo che sia proprio in discoteca (anche e nonostante le trasgressioni che vi avvengono) che esso viene compresso e represso, mentre è (o almeno era ai miei tempi – horribile dictu!) eventualmente nelle case o nei luoghi di raduno privati e per piccoli gruppi, che tale liberazione riesce (riusciva?) ad avvenire più facilmente.

R.B.: Questo tuo punto di vista mi fa pensare al fenomeno dei Rave Party, delle T.A.Z. (Temporary Autonomous Zones) così come al ruolo dei Centri Sociali – attraverso i quali si è tentato negli anni di creare isole di, si potrebbe dire, autodeterminazione sonora. Rispetto al dato architettonico, non credo sia una casualità il fatto che decodifichi lo spettro della repressione in luoghi DISEGNATI PER LE DANZE mentre al contrario, intravedi possibilità liberatorie in luoghi DESTINATI ALLE DANZE. Il dubbio che mi sorge, e pensando all’Italia di quegli anni, è l’avvicinarsi di un secondo spettro – forse più etereo dell’altro – ovvero quello dell’autoreferenzialità. Quando parli di “raduni privati per pochi” non stai ammettendo, forse, che il potere liberatorio dei suoni sia per eletti – persone scelte? Se le famiglie sono sempre meno numerose, le case sono sempre più piccole e le amicizie provengono principalmente dal settore lavorativo o dal ceppo linguistico di provenienza, non c’è il rischio di perdere in qualche modo il contatto – attraverso la danza – dell’altro da sé? Oppure, più semplicemente, questo contatto avviene in assenza di corpi – digitalmente – come nelle migliori distopie di Superstudio?
P.F.: Continuo a non essere d’accordo; ovviamente non ho mai avuto esperienze con i rave ma da quello che so, e senza moralismi, mi sembra che essi siano un ampliamento in tutti i sensi, sincronici e diacronici, di quello che avviene nelle discoteche, quindi senza alcuna possibilità di evasione e liberazione. Credo che i rave odierni abbiano ben poco a che fare con i raduni storici di Woodstock o dell’isola di Wight che restano, credo, fenomeni unici (nonostante le droghe e non a causa di esse) di liberazione e di una vera e propria educazione alla critica del background culturale dei singoli e del panorama sociale complessivo dell’epoca. Che poi l’inerzia sociale sia riuscita in gran parte a risucchiare la maggior parte dei partecipanti all’interno delle istituzioni fa parte del principio di conservazione di ogni società che è un’idra, un’idrovora immane a cui solo pochi, i più forti e determinati riescono a sfuggire. Amen.

R.B.: In passato mi hai parlato del fatto che i collage di Superstudio che tu stesso andavi componendo, traevano alcuni dei loro personaggi da una raccolta di riviste che raccontavano di popolazioni lontane… era una tua zia a collezionarle, e tu – se ricordo bene – gliele rubavi e ritagliavi… E infondo è sbocciato proprio lì il tuo amore, ancora acceso, per l’antropologia sociale. E alcuni suoni dei film di Superstudio provengono proprio da una tua selezione di vinili appartenenti a quella stessa collana. Questo ci potrebbe riportare – dall’odierna prospettiva musicale post-sampling – all’applicazione del concetto di collage al campo sonoro…
P.F.: Era la zia Teresa, maestra montessoriana, che mi ha fatto scuola fino alla quarta elementare, che riceveva le rivistine missionarie dalle quali ho imparato “a guardare negli occhi” gli altri. Le immagini erano quasi sempre in un bianco e nero molto modesto, quindi hanno ben poco incrementato le mie raccolte di ritagli, ma anche quelle (date liberamente, non rubate), insieme ai libri di storia e geografia, degli anni precedenti di scuola, hanno fatto parte dell’inizio. I dischi di Suoni dal Mondo, assieme ad altre fonti che ho citato sopra, sono stati molto importanti ed ora che mi ci fai pensare, possono essere un contraltare sonoro ai fotomontaggi visivi che producevo; i nostri film dell’epoca ne sono una prova. In questo momento, mentre ti sto scrivendo, ascolto delle registrazioni dell’ U-Theatre per scegliere le musiche da “attaccare” al video su Vierwindenhuis che presenterò alla galleria Base di Firenze. Come vedi il cerchio si chiude.

 


Riccardo Benassi
Riccardo Benassi nasce in Italia nel 1982, cresce a Cremona, sulle rive del fiume Po, e al momento vive e lavora a Berlino. Muovendosi tra ricerca sonora e visuale dà vita a video, ambienti, installazioni e performance che celebrano e indagano la disfunzione tecnologica e il corto-circuito semantico e associativo. Fa dell’architettura uno strumento immaginativo che la rende un metronomo sociale, volto alla definizione dell’impercettibile erosione sugli avvenimenti provocata della storia. Fra gli agitatori della scena della musica sperimentale underground, dal 2004 è ideatore e promotore insieme a Valerio Tricoli del progetto  Phonorama, live electronics collaborativo. Nel 2006 fonda con Claudio Rocchetti il duo audio-visivo OLYVETTY. Tra le mostre recenti: le personali  Attimi Fondamentali con Piero Frassinelli / Superstudio (Museo Marino Marini, Firenze 2011), 1982 (Macro, Roma 2010),  Autostrada Verticale (PAC, Ferrara 2009), e le esposizioni collettive Emerging Talents  (CCCS, Firenze 2011) e  Elusive a cura di Jimmie Durham (Radio Arte Mobile, Roma 2011).