Mach 2  © Superstudio, pianta del locale

Mach 2 © Superstudio, pianta del locale

Gian Piero Frassinelli (Superstudio): la voce dell’architettura

Riportiamo il testo dell'architetto Frassinelli in occasione di Notte Italiana in Biennale con un'introduzione di Riccardo Benassi

L’architettura da quando la conosco non è mai stata zitta un secondo. Quindi – in automatico – parlare di architettura e suono per me è senza ombra di dubbio naturale ed è un aspetto dell’osservazione architettonica che ci coinvolge tutti, immediatamente. C’è chi come Goethe ha accennato all’idea che l’architettura sia suono congelato e chi come Frank Zappa ha ammiccato all’idea che parlare di musica è come ballare l’architettura. Quello che a noi interessa oggi alla 14. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia è capire come il binomio tra suono e spazio costruito si sia concretizzato nel tema dell’evasione, ovvero di superamento della realtà quotidiana attraverso la Discoteca e i suoni da essa prodotti. Con questo testo Gianpiero Frassinelli condivide con noi un particolare istante in cui l’architettura gli ha sussurrato qualcosa, e poi parlato a voce alta…

 


La voce dell’architettura

In quei giorni di fine febbraio del 2003, mentre chiuso nel Design Museum di Londra da mattina a sera, curavo l’allestimento della mostra del Superstudio, il tempo si era mantenuto buono.

Design Museum di Londra
Design Museum di Londra

 
Finalmente libero, nel pomeriggio prima dell’inaugurazione, decisi di andare alla Tate Modern.
Appena uscito dal museo aveva cominciato a piovere: Londra mi dava il suo benvenuto. Decisi ugualmente di raggiungere la Tate a piedi, lungo il Tamigi. Contrariamente alla nuovissima sede della municipalità di Londra incontrata poco prima, il ponte di Norman Foster mi era piaciuto.

 
Sconcertato per un attimo dalla cura dei dettagli, inconsueta per un ponte, che lo trasformava in oggetto di design, compresi subito dopo che, trattandosi di un ponte pedonale, la scelta era stata coerente.

Rimuginavo tra me paragonando queste nuove architetture con il vecchio lavoro del Superstudio che mi era toccato di ripassare ben bene durante l’allestimento mentre entravo nella Tate Modern.

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Monumento Continuo, Superstudio, 1969

 
Qui ogni pensiero mi fu cancellato dalla presenza, imprevista, enorme, mostruosa, terribile del “Marsyas” di Anish Kapoor che impegnava totalmente la grande Galleria delle Macchine.

 
Non so quanto tempo sono stato a guardarlo, o meglio a cercare di percepirlo: così enorme da non poter essere mai abbracciato nel suo insieme. Un gigante quieto, e per questo inquietante. Esso mi parve emettere un rumore sordo ai limiti dell’udibile: un non suono che ancora non sono certo di aver udito ma che tuttavia mi porto ancora dentro e che percepii subito, istintivamente, come la voce della non-architettura.
La caverna abitata, l’architettura inabitata; la disarticolazione del trinomio architettura – architetto – utente, che cercavamo negli anni ’70 per raggiungere l’interno del meccanismo e capirlo; ecco quello che prese ad occuparmi la mente quando, anche per sottrarmi a quella presenza incombente e sorniona mi infilai, a caso, in una delle stanze laterali.

Ci sono dei giorni speciali nella vita di ciascuno di noi; quello doveva essere uno di questi perché mi ritrovai di colpo davanti alla “Spiral Jetty” (1970) di Robert Smithson; una sala le era dedicata, un film ne illustrava la costruzione.

Spiral Jetty - Robert Smithson
Spiral Jetty – Robert Smithson

 
Beh, la spirale di Smithson era stato all’inizio degli anni ’70 una delle cose che nel Superstudio avevamo più ammirato e alla cui dimensione a scala di paesaggio ci eravamo ispirati. Uno dei nostri primi fotomontaggi del Monumento Continuo era stato realizzato su una foto del “Cross” (1968) di Walter De Maria (faceva parte della mostra che avevo appena finito di montare).

Movimento Continuo, Superstudio 1969
Movimento Continuo, Superstudio 1969

 
La Land Art come la Pop erano state, per noi, fonte di ispirazione ben più dell’architettura; la scoperta delle opere di Rauchenberg e Morris Luis nella Biennale di Venezia del ’64 è stata un mio evento fondante: Rauchenberg mi ha insegnato che l’espressione artistica può essere straordinaria anche se è “sporca, brutta e cattiva”, Luis che pochi segni o colori su un pannello possono creare più spazio che tonnellate di cemento e mattoni.

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Opera di Robert Rauschenberg

 
Quel pomeriggio girando per la galleria vidi tante altre cose bellissime, di grande interesse, ma senza riuscire a concentrarmi per la testa ingombra di ricordi, pensieri, dubbi, considerazioni; infine uscii nella notte londinese, insolitamente limpida, percorsa da un vento leggero che mi sembrò riportasse ancora, lontano, il profondo brontolio del Marsyas. Per tutta la strada fino all’albergo continuai a chiedermi se quel rumore esisteva o se me lo ero sognato. Comunque, se esisteva mi ricordava qualcosa!
Incredibile! solo adesso ricordo! È lo stesso suono che mi era entrato nelle orecchie visitando Derinkuyu, una delle città sotterranee della Cappadocia, realizzate dagli abitanti dei paesi sovrastanti, come rifugio dalle frequenti incursioni degli eserciti stranieri.

 
In quel colossale labirinto tridimensionale le parole e il rumore dei passi degli altri visitatori invisibili, trasmessi dagli innumerevoli pozzi di aerazione, scale e cunicoli, formavano un brusio sordo e inarticolato che si impastava all’aria polverosa e pesante. Quella visita era stata un’esperienza intensissima, inquietante al limite del sopportabile; mi aveva fatto toccare con mano uno dei limiti dell’architettura: una vera città medioevale per migliaia di persone appositamente concepita senza una forma; una serie di percorsi e di spazi piccoli e grandi scavati senza alcuna geometria, salvo quella delle enormi macine che servivano a sigillare un settore dall’altro. Circolari e monumentali come le bocche spalancate del Marsyas che, adesso, mi appare come il suo positivo (in scala ridotta, nonostante sia enorme).
Ricordo di aver letto che quell’architettura, unica ma di dimensione urbana, fu concepita senza una forma appositamente perché gli abitanti ne fuggissero appena scampato il pericolo: unica architettura totalmente, puramente funzionale, assolutamente priva di forma. L’esatto contrario del Marsyas e della spirale di Smithson: architetture di pura forma e prive di ogni funzione pratica: zenit e nadir dell’architettura.
 

(Per Lara Vinca Masini – per il catalogo “L’isola del giorno dopo” Biennale di Venezia – 2004)