Interno Link Project 1994

Daniele Gasparinetti

Immaginari, connessioni e discipline: la genealogia del Link Project e quello che produceva.

Daniele Gasparinetti schivo, ambizioso, curioso, tenace, dal linguaggio forbito e ottimo compagno di bevute. È lui la persona che, insieme a Silvia Fanti e ad altri collettivi, ha sviluppato fin dall’inizio tutte le attività che si sono svolte al Link Project di via Fioravanti 14. Dalle occupazioni al cinema sperimentale, passando per il cyber-punk e i lavori di bonifica degli spazi, lui c’era sempre. Luca Vitone, un suo caro amico quando l’abbiamo intervistato ci ha detto che sulla porta del primo ufficio del Link qualcuno scrisse “Daniele è Dio”. A Daniele abbiamo chiesto di raccontarci com’è nato il Link Project.

 

Com’è nato il Link? Quali sono le esperienze ti hanno portato a fondarlo?
Daniele Gasparinetti: Il Link nasce dalla storia delle occupazioni degli anni 80 a Bologna. In particolare è nato dalla confluenza di due nuclei di esperienze che erano in qualche modo intrecciate. Semplifico molto: il movimento punk e i collettivi universitari, in particolare quelli del Dams. C’era una costellazione di persone e gruppi, con singoli che passavano da una situazione all’altra, in uno scenario che era molto minoritario, sparuto e, nella mia memoria, anche un po’ sgangherato. All’inizio tutto si muoveva intorno ad alcune case occupate e ad abitazioni collettive, quelle dove si riusciva a fare applicare l’equo canone, fintanto che è esistito, grazie ad avvocati militanti. Poi sono iniziate le occupazioni universitarie e poi, tra l’88 e il ’90, l’occupazione dell’Isola nel Kantiere. Il background è stato un po’ questo: collettivi e gruppi informali, situazioni dove c’era una frequentazione mista tra studenti e altre persone che l’Università neanche la frequentavano, ma condividevano certi tratti sub-culturali molto vari. Ci son da dire alcune cose sul “clima culturale” di quegli anni.

C’era una costellazione di persone e gruppi, con singoli che passavano da una situazione all’altra, in uno scenario che era molto minoritario, sparuto e, nella mia memoria, anche un po’ sgangherato.

C’era una forte tensione a fare delle cose, un insieme di bisogni che erano stilistico/esistenziali e non saprei come altro definirli. Una mescolanza tra stile di vita, modi di vestire o di mal vestire, di atteggiarsi, di ascoltare e fare musica, di accettare o rigettare le regole o di pensare la politica e il rifiuto della politica tradizionalmente intesa. Non si trattava tanto di ribellismo quanto di un modo di costruire un proprio codice d’esistenza in mezzo ad una società percepita come cumulo di macerie e menzogna. Perché tra gli altri, in quegli anni, l’immaginario che girava era anche un po’ quello di Mad Max, che faceva come da contraltare allo sfavillio dei party alla De Michelis e alla Milano da Bere. Erano gli anni 80.

 

Mad Max quindi, ma anche Peter Jackson che negli anni 80 girava gore movies o Harry Pioggia di Sangue… Erano tutti riferimenti di quel giro; altro che futuro, “il benessere che ci state promettendo è una presa per il culo… non è vero niente”. Un rifiuto intuitivo delle promesse di partecipazione alla ricchezza della classe media. E su questo si innesta una interpretazione marxista, con qualche legame con la storia bolognese del decennio precedente che viveva nelle aule, le autogestioni e le occupazioni universitarie, con tutte le derivazioni deleuziane, situazioniste e decostruzioniste. Ecco, prima del Link queste costellazioni di persone si intrecciano in vario modo. All’Isola nel Kantiere, sicuramente, o nella prima grande fabbrica occupata, che stava dietro alla stazione centrale (durata poco in effetti) o nella sede di comunicazione del Dams di via Guerrazzi che sarà autogestita dopo il movimento della Pantera per tre anni.

Poi due fenomeni relativamente nuovi: l’Industrial e il Cyberpunk. Io ero molto affascinato dal primo: c’era qualcosa di sublime e orribile che caratterizzava la cultura industriale. Era un fenomeno che proveniva principalmente dall’Inghilterra thatcheriana e, con altre sfumature, dagli Usa di Reagan. Entrambi hanno avviato il processo di de-industrializzazione dei loro paesi, che l’Industrial ha espresso a suo modo. A cavallo dei 90 appare anche quella meteora che fu il Cyberpunk. Ricordo che ci fu un convegno, molto frequentato, ad Amsterdam nell’89 dove noi bolognesi andammo in molti. Si chiamava Europe Against Current.

Poi due fenomeni relativamente nuovi: l’Industrial e il Cyberpunk.

In quell’occasione si riunirono hacking clubbers e media activist di tutto l’occidente e l’oggetto di discussione era la rete, che non aveva ancora il nome che le attribuiamo oggi. In quel contesto venne fuori questa corrente del Cyberpunk, con la coincidenza di Gomma e Bifo che la scoprono in contemporanea ed erano entrambe presenti a quel meeting. Il Cyberpunk introduceva un elemento nuovo rispetto al catastrofismo post-urbano, parlava di un futuro ipertecnologico, iperconnesso, che offriva una rappresentazione diversa delle società post-industriale. Dava, anche se nel campo non troppo serio della science fiction, una chiave immaginaria di quello che sarebbe potuto avvenire in futuro. Fu una grande fascinazione.

Contemporaneamente ci fu il movimento studentesco del ’90. Lì la rete l’abbiamo scoperta realmente. Si ricorda quel movimento come il movimento dei fax ma in realtà nelle sedi amministrative delle università occupate, quello che i net-activist scoprirono, furono i protocolli dell’http. I movimenti vengono usualmente un po’ assecondati a caldo ma poi, alla lunga, repressi e/o riassorbiti. Gli inizi degli anni 90 a Bologna, segnano un ciclo di sgomberi: via la Fabbrica di via Serlio, via l’Isola nel Kantiere e altre che non ricordo. Fu una specie di dramma collettivo per quella piccola scena. Resisteva l’autogestione del Dipartimento di Comunicazione di via Guerrazzi. Fu lì, (come ricorda Lucio Apolito), che ebbero luogo le infinite riunioni che precedettero la nascita del Link. Perché il Link nasce in parte da un tentativo di recupero del dialogo, tra occupanti e amministrazione pubblica. Un processo per niente lineare, sia da una parte che dall’altra, che ha visto la dura critica da parte di alcuni di noi che, in contrapposizione alla mediazione, hanno proseguito con l’occupazione del Livello 57, e dall’altra parte, si è assistito alla “marginalizzazione”, da parte dei suoi compagni di partito, del funzionario che aveva avviato la trattativa con noi.

Perché il Link nasce in parte da un tentativo di recupero del dialogo, tra occupanti e amministrazione pubblica. Un processo per niente lineare

A pensarci bene, la nascita del Link, non deriva tanto o non solo da quelle discussioni e da quella trattativa: deriva piuttosto da un’altra esperienza transitoria, le occupazioni di via del Pratello (ebbene sì, si era tornati a squottare le case) e da quella follia collettiva che fu la PrateTV, una sorta di Cyberpunk di quartiere, si incontrarono e lavorarono assieme un bel po’ di persone e gruppi. Molti di più di quelli che sospettavamo esistere, ma che evidentemente si erano formati all’ombra delle occupazioni. È quell’esperimento di united crews che ha dato vita al Link; di nuovo un raggruppamento improbabile di persone che non avevano nessuna voglia di starsene in una cameretta a farsi i fatti propri. E da lì, dal Pratello, il nome Link: ovvero connessione, ma anche acronimo potenziato di Isola nel Kantiere (Ink) e anche una sorta di premio consolatorio per i marxisti non pentiti, essendo parola che evoca il concetto di sinistra (linke) in tedesco. Era un nome che sembrava funzionare molto bene perché univa tutte queste cose. Chissà… Il nome era bello il logo forse un po’ meno, ma non era troppo importante: è stato disegnato in un minuto da Camacho su una tovaglietta di carta, nel bar di Lele, in Pratello, per poi essere digitalizzato da un grafico di passaggio.

 

Logo Link Project,1994
Logo Link Project,1994