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Claudio “Mozart” Rispoli

È uno dei messaggeri sonori e verbali della venerata Baia degli angeli. Più di 35 anni di carriera raccontati in un'intervista fiume, dove non si parla solo di locali folli e di musica ma anche e soprattutto di emozioni.

Il racconto di Claudio sulla Baia e su quello che lui ha vissuto a metà anni Settanta, tra Rimini, Riccione e Gabicce, è poetico, romantico e musicale. Chiamato “Mozart” non a caso, è stato un ragazzino vispo che fin da minorenne andava in giro di notte: perché lui la musica non voleva solo impararla al conservatorio ma voleva “usarla” per far emozionare e vivere situazioni diverse. E queste situazioni le ha trovate al Paradiso di Rimini, al New Jimmy e via via in quei posti che con lui hanno segnato un pezzetto di storia della notte italiana. Una lunga intervista per confermare che l’Italia, anche quella notturna, non ha nulla da invidiare a nessuno.

 

Quando e come ti sei avvicinato alla musica?
L’avvicinamento alla musica è sostanzialmente una responsabilità della mia famiglia. I miei genitori si erano accorti, fin da quand’ero piccolo, che avevo particolari propensioni verso la musica. Così a cavallo tra le elementari e le medie inizio il conservatorio; studi fatti con non poca fatica perché studiare non era una cosa che faceva per me. Ero molto vispo come ragazzino.
Tra l’altro avevo come maestro un personaggio abbastanza tosto che mi spronava alla musica: il direttore d’orchestra Marcello Abbado, fratello del più noto Claudio, che riconobbe in me una particolare dote per la musica in generale, oltre che per suonare il piano. Mi chiamavano “Mozart” per questo, perché ero proprio piccolo di statura e perché suonavo sempre il piano, come il compositore. Da quelle lezioni in poi ho visto e toccato determinate situazioni dove la musica non era solo qualcosa che potevi imparare a scuola ma era ed è un fattore di vita.

Oggi guardo il Maestro ancora con più rispetto, perché effettivamente che ha avuto un fiuto particolare.

Con chi hai toccato queste situazioni e come ti sei avvicinato alle discoteche?
Sono sempre stato un po’ una mascotte, nel senso che avevo amici d’ovunque e con tutti, se mi capita di rivederli oggi, c’è sempre qualcosa di molto caldo che ci lega, anche dopo tanti anni.
In nel momento di “rivoluzione” adolescenziale ci son state un paio di storie e di situazioni che mi hanno fatto godere di quello che è l’ascolto in determinati ambienti della musica.

Credo che noi abbiamo passato un periodo fantastico, eravamo dei pirati fuoricasa! Anzi direi che una buona fetta di gente che viveva la notte poi di giorno si nascondeva… il concetto era: “che cosa fai da grande?”, capisci?

E tu cosa volevi fare?
Io non ho avuto grande possibilità di scelta perché il mio approccio con la musica era qualcosa di veramente viscerale. Qualcosa in grado di far scattare dentro di me la potenza di un trattore e sarà sempre così. È una cosa che uno ha dentro quindi non può tradirti mai. È come uno spirito.

claudio rispoli giovane
 
C’è qualcosa di mistico.
Non ne parlo da una consapevolezza sbruffona. Ma quando, dopo 35 anni di esperienza sulle macchine, uno realizza che quella cosa lo meraviglia ancora, be’ allora è una delle tue certezze. Il missaggio è un intreccio di cose che avvengono solo in quel momento e a livello musicale e mi stupisce sempre, ancora oggi.

Quali sono state le tue prime esperienze nei club?
Avevo 15/16 anni e proprietari permettendo, perché c’erano pochi locali che mi facevano entrare, andavo al Paradiso di Rimini dove già veniva suonata tutta la Motown e soprattutto al New Jimmy.

Com’era questo locale?
Fondamentalmente era un buco, però fatto da un architetto di quelli rampanti. Un personaggio veramente particolare, non ricordo il nome anche perché il rapporto è stato davvero occasionale e saltuario, però ricordo che era sempre molto elegante e che girava con una macchina scoperchiata di quelle assurde.
Il vero flash avvenne quindi qui al New Jimmy con la persona che suonava i dischi, perché metteva veramente cose fuori dal comune e bellissime: era una ragazza francese molto molto bella che aiutava a sentirti a tuo agio.

Considera che io ero minorenne e mi trovavo in un mondo diverso da tutti quelli che un ragazzino poteva immaginare. Ero in un posto particolarmente chic, ma non perché è chic di suo, perché la gente che lo frequentava assaporava un modo di essere che veniva rappresentato dalle cose belle. Le persone davano una certa impronta allo stile e alla bellezza e quindi anche la bella musica. Bellezza che diventava un gesto, come i Jestofunk: il nome deriva dal gesto, che è una cosa personale.

Credo che noi abbiamo passato un periodo fantastico, eravamo dei pirati fuoricasa! Anzi direi che una buona fetta di gente che viveva la notte poi di giorno si nascondeva… il concetto era che cosa fai da grande, capisci?

Questo si collega all’immagine, che però ai miei occhi è un po’ grezza, di “Saturday Night Fever” che ovviamente affascina…. Ma per chi come me ha fatto la Baia degli angeli era come sfatare un mito: quello che si faceva vedere era solo il lato commerciale, quando invece si stava lasciando, e si stava trasmettendo, un’emozione ovvero la musica. Trasformare un’emozione in qualcosa di commerciale rischia di fare anche dei danni. Per esempio Rovazzi per me è dannoso, ma ci stiamo imbarcando in un altro discorso.
 
 
E come ti sei avvicinato alla Baia degli angeli
Per parlarci chiaro, sia il New Jimmy che la Baia avevano dei punti in comune. La cassiera della Baia, era la sorella del padrone del New Jimmy, questo per farti capire il legame che c’era tra i due locali.

Io poi praticamente per un anno ho lavorato al New Jimmy e poi, appena avevo finivo, andavo a dormire alla Baia. Arrivai alla Baia nel ’75/’76, quell’anno li mi arrivò la voce di gente che stava facendo una roba da matti a Gabicce.
Per iniziare a parlare della Baia bisogna dire che Giancarlo Tirotti (il proprietario di Roma, ndr) si era fatto un viaggio intorno al mondo portando a casa emozioni e cose che chiaramente noi non potevamo neanche immaginare. Il suo concetto, che po ha espresso nell’evoluzione della Baia, non era quello di un locale in senso commerciale ma di unire un gruppo di picchiatelli amici che portassero a termine questo suo concetto, senza grossi tipi di mansioni ma più che altro seguendo le proprie attitudini.

Mozart in relax alla Baia © www.afrozone.it
Mozart in relax alla Baia © www.afrozone.it

Stessa cosa valeva anche per il personale: non veniva assunto un cameriere in base al curriculum, ma solo se semplicemente era uno come noi. Eravamo noi che facevamo il locale.

Oggi viene venerata questa cosa della Baia perché quello che si creò è qualcosa che in quell’istante era concreto. Le storie che sentivamo del ’68 erano tutte chiacchiere e noi invece abbiamo veramente fatto qualcosa, che in quel momento nel mondo, era qualcosa prodotto da noi i cui riferimento però erano prettamente americani.

Io e Giancarlo Tirotti, Paolo Mattei, uno dei soci e tutti gli altri ci siamo amati subito. Considera che io ero anche minorenne ma vivevo dove mi pareva e nessuno mi chiedeva niente, io vivevo me stesso in maniera completamente indipendente. Io alla Baia non avevo una mansione. Poi sono diventato molto molto amico di Bob (uno dei due dj, ndr) che era una persona dai modi e di un’eleganza incredibile, mentre Tom (l’altro dj, ndr) era un po’ più sopra le righe e vizioso, ma la cosa fenomenale era che tutti e due avevano una marea di dischi.
 
Tu dove ti rifornivi?
C’era DiscoPiù allora di Mario Boncaldo che, per l’epoca, era avanti e trattava solo vinili di quel tipo di musica, niente di nazionalpopolare. Poi la tua fama e la tua bravura faceva in modo che qualche favoritismo si riceveva così Mario ti teneva da parte qualche copia di alcuni dischi incredibili e stampati in poche copie.

Cosa ti ricordi della baia oltre la musica?
Io mi ricordo la Baia chiusa d’inverno di notte, con noi che siamo lì con la musica in sottofondo. Una sorta di comunità di gente che condivide la stessa passione e non ne può fare a meno. Insieme al fatto dell’essere un po’ particolari, non come ricerca, ma come dato di fatto. Una sorta di Saudade nel senso brasiliano della cosa.

baia degli angeli
 
Come mai finisce quest’avventura?
Poi la cosa divenne politica. C’era una chiara intenzione di bastonare e i motivi non contavano. Io posso capire che quando ti arrivano 3 mila persone, in un paesino come Gabicce, il bagnino s’incazza perché magari di mattina trova le porcate sulla spiaggia, e può succedere. Però l’immagine non era brutta, e in un altro momento, con un altra mentalità sicuramente avremmo sfruttato a pieno di questa storia della Baia.
Voglio dire: oggi scrivono i libri sulla Baia, ci fate le Biennali… però fondamentalmente se vai da qualcuno che vive ancora lì, come ai vecchi tempi, si vanta della Baia ma altri, molti, vorrebbero stenderci un velo pietoso.

Quando dico che la questione fu proprio politica è perché io personalmente telefonai ad Adelaide Aietta, braccio destro di Pannella. I Radicali erano disponibili ad aprire un interpellanza parlamentare, perché io dissi: pomeriggio, sole, prato vista mare, gente con i fiori in bocca, sedere sull’erba, un immagine bellissima da vedere… però arriva la celere con tanto di ufficiale con fascia tricolore e gli dà la carica e arrivederci e grazie. Questo è successo. Come quella volta che, con una scusa, arrestarono una persona normalissima che non rappresentava nessun pericolo e lo portarono in giro per il paese per far vedere che avevano arrestato qualcuno.

Il suo concetto, che po ha espresso nell’evoluzione della Baia, non era quello di un locale in senso commerciale, ma di unire un gruppo di picchiatelli amici che portassero a termine questo suo concetto, senza grossi tipi di mansioni ma più che altro seguendo le proprie attitudini.

Poi l’interpellanza parlamentare non si fece perché c’erano in galera due persone: tale Diego Leoni della nuova proprietà Baia degli angeli che non c’entrava niente con Tirotti, sia ben chiaro, e lo stesso Giancarlo Tirotti. L’avvocato in questione, allora era tale Zancan, che era anche avvocato della Juventus, consigliò che era meglio lasciar perdere e non fare niente perché in tutti i casi avremmo appesantito il carcere.

E quando riaprì?
Va via Tirotti nel 1978 e la baia era chiusa. Un giorno vengo a sapere che riapre e mi sorprendo. Così telefono: mi risponde una persona e mi disse che i proprietari non c’erano e che potevo lasciare un messaggio. Io risposi dicendo avevo lavorato lì e volevo sapere se le nuove persone sapevano cos’era quel posto. Era una telefonata che andava oltre il rapporto lavorativo, era una telefonata che cercava un rapporto umano come quello di sempre. Da subito invece capii che il rapporto era completamente un altro, un rapporto freddissimo.

Dopo qualche settimana mi telefonano, io intanto gli avevo spedito un paio di registrazioni, dicendomi che avevano bisogno di parlarmi. Mi dissero che si erano informati su di me ed effettivamente la mia presenza era abbastanza indispensabile. Mi comunicarono anche che avevano già fatto contratto con Daniele Baldelli che io lo ricordavo per il Tabù, e che non avevo nessunissimo problema a suonare con lui.

Mozart e amici su una 2 Cavalli
Mozart e amici su una 2 Cavalli

Quello che era importante per me era che io da solo, e ne avevo la certezza, dentro la cabina, ero in grado di portare avanti il discorso da dove l’avevamo lasciato.
Ma era chiaro fino ad un certo punto, perché considera che eravamo stati comprati. Quindi erano arrivati gli imprenditori, quelli che avevano sentito le storie sulla magia della Baia, che sicuramente avevano una passione per quello che facevano, però avevano un altra cultura. Venivano dal Nephenta di Torino, che aveva qualcosa in comune con la Baia ma non era nato con lo spirito. Io sapevo di fare una lotta controcorrente e tra l’altro sotto falsa identità, nel senso che il mio fine non era quello di trovar lavoro veramente, tant’è che dopo un paio di serate la cosa era diventata tangibile.

Il sig. Massimo Bersano di Torino comunque che era una persona splendida, tanto che eravamo diventati amici e per un paio di mesi fui ospite a casa sua e poi suonai anche al Big Nephenta di Torino quando la Baia chiuse definitivamente.

E dopo la Baia?
Una sera un tizio con una macchina fuori di testa e dall’eleganza mostruosa mi chiese: “tu sei mozart?” e io risposi “sì”, mi disse che aveva un locale molto particolare frequentatissimo da attori e persone pazzesche: era il Jackye O di Roma. E io cosa faccio? Vado a lavorare lì.

Tutto un altro mondo rispetto alla Riviera.
Guarda mi son ritrovato Helmut Berger che mi chiedeva “Star Wars” e io che ormai mi incazzavo. Però era una gavetta che io volevo fare. Infatti non è che io stessi benissimo lì: non conoscevo nessuno, ero veramente solo.

Eri proprio un operaio della consolle.
No, no perché nessuno mi poteva far fare quello che voleva. Era il mio estro mollato lì, io me ne sbattevo di qualsiasi cosa, son sempre stato così.

 
 
Non c’era il calore che ti portavi dietro dalla Baia.
No, assolutamente. Infatti subivo questa mancanza. E poi alla terza serata, quando doveva esserci la festa della Formula 1, con tutti i corridori, io stavo malissimo. Chiamai il medico che diagnosticò una gran gastrite e quando mi chiamarono dal locale per venirmi a prendere io dissi che stavo malissimo ma loro mi risposero che stasera non era possibile assentarsi. Arrivò a prendermi un Mercedes, io arrivai in consolle e svenni. Mi svegliai che mi avevano operato, ed ero salvo per miracolo perché avevo una peritonite acuta. Quindi inizia la mia esperienza al Fatebenefratelli.

Sono stato lì una ventina di giorni poi ho firmato per andare a casa. Lì la notte dell’operazione mi agito, mi si rompono tutti i punti interni, perdo un sacco di sangue e mi devono integrare con 2 sacchi. Indovina che sangue era? Era il sangue del caso Dulio Poggiolini: sacche di sangue infetto da Epatite C, malattia che scopro solo 10 anni dopo.
Mi sono sempre rifiutato di fare l’interferone e non nego l’incoscienza che i giovani come me avevano. Io non ho curato niente: me ne sono anche un po’ fregato, nel tempo però, dal momento della conoscenza di questa malattia, ho gradualmente smesso di toccare alcol. E questo mi ha dato qualche anno di lotta in più.

E dopo il Jakie O? Dalla tua biografia vedo il Goody Goody di Faenza che sento nominare spesso.
Suonai in posti molto molto particolari tipo il Goody Goody di Faenza, che era furore puro, follia, per quello lo senti nominare spesso. Era uno scantinato messo bene di un palazzo antico quindi con tanto di colonne e soffitti un po’ gotici, ed era piccolissimo: per entrare dovevi provare a spostare una massa di gente, perché era sempre imballato. Questa è stata un’esperienza che neanche nei posti più neri d’America potevi trovare o potevi vivere.

Dj Mozart & Ruben
Dj Mozart & Ruben

QUINDI MI CONFERMI LA STORIA DELLA NOTTEITALIANA, NON HA NULLA DA INVIDIARE A QUELLA DI NESSUN ALTRO PAESE.
No, direi di no. L’unica cosa che storicamente devo sottolineare è che gli americani hanno castrato tutto. Nel senso che loro non hanno più niente di talmente libero e la musica, stesso Philly sound è irripetibile. E non puoi non ascoltare, anche oggi, senza sorpresa e senza emozioni quei suoni, perché se non sai o non hai mai sentito qualcosa del genere, non sai che cazzo è la musica.

E TU OVVIAMENTE IN TUTTO CIò CI SGUAZZAVI?
Al Vinavil e che poi divenne Thriller di Imola, siamo nel primo quinquennio degli anni 80, ero arrivato a suonare addirittura Steve Reich concerto per 18 musicisti. La forza era il modo in cui riuscivo a mettere i pezzi e incastrarli. Non era solo il concetto del metterli a tempo, ma proprio il concetto del suonare.

ALTRE ESPERIENZE?
Poi c’è stato il Much More di Roncofreddo sopra Cesena, posto bello, molto grande, locale fondamentalmente di liscio nel senso che non era una catapecchia ma proprio una struttura in cemento armato fatta bene, quasi un bel capannone. Era fuori Cesena sui colli e dovevi proprio aver voglia di arrivarci.

PARLANDO DI GENERI MUSICALI, MA TU TI RICONOSCE NELLA DEFINIZIONE DI DJ AFRO?
No, perché afro è diventata una cosa quasi dispregiativa secondo me. Certe cose punk, anche di gente che non suona esageratamente bene, magari mi danno un’emozione e per me è sullo stesso piano di Fela Kuti. Puoi dirmi semmai che sono un dj black, però ci sono cose di bianchi che suono e che suonano da paura! Ma considera sempre che poi non esiste il colore su certe cose.

ECCO QUI VENIAMO Arriviamo ai JESTOFUNK che però sono un prodotto più house.
Intanto sono un gruppo di tre persone, che ha un’anima ben diversa dall’house.
L’house è il minimalismo, una batteria elettronica, nella maggior parte dei casi con un suono prestabilito. Coi Jestofunk non parliam più di house parliamo di qualcosa che tengo ancora tra i miei trofei trofei. Poi ho fatto altri pezzi con Ricky Montanari ed erano tutte produzioni che potevano andare bene all’Ethos posti dove l’house era un culto per qualcosa di veramente underground.

 
 
L’house per me è quando tu mi fai sentire un cliché prestabilito per un ora e mezza due e io mi spacco le palle. Per fare house come si deve io credo che ci voglia una ricerca mostruosa, e te lo dico perché, come succedeva a gente che lavorava col mio genere, poi scoprivi che anche nel genere house i dj compravano delle cose bellissime che però molte volte non suonavano. Molte volte però, la tua idea era stata giusta, e quel timore nel suonare quel disco a volte ha impedito una soddisfazione. Nel senso che magari uno non osa, però se ha comprato un disco evidentemente c’ha sentito qualcosa, gli piace!
Purtroppo il nostro lavoro a volte fa sì che quando arrivi in un posto dove c’hai la pressione di chi bada solo alla gente e al cassetto.

OGGI DOVE PRENDI I DISCHI
Io i dischi me li vado a prendere tra tutti quelli che ho e poi li carico sul computer e cerco di dargli tutta un altra dinamica e stesura. Non aggiungo niente, ma prendo le parti di un brano e gli faccio fare tutto quello che si può per andare dietro a un’animale che istintivamente mi da l’emozione di quel pezzo.

Quello che sento quando sto mixando, e sto facendo una cosa che ritmicamente e musicalmente è indiscutibile, è un’emozione. In quel momento c’è veramente un qualcosa che io avverto: potrebbe essere un serpente, che forse è lo stesso che c’è nel simbolo della medicina, che rappresenta l’energia vitale. Quel momento è una cosa tribale e sicuramente avviene qualcosa che va al di là del sistema che la tua mente può concepire. Come il fatto che magari in futuro scopriremo che il nostro umore può rappresentare una facilità al tumore.

Mozart all'opera durante un  mixaggio © Gianluca Pandullo
Mozart all’opera durante un mixaggio © Gianluca Pandullo

Infatti la cosa eccezionalmente terribile è che la musica non può mancare. Nella nostra mentalità c’è sempre stato il fatto che la musica ad un certo punto, quando una persona cresce, non è più così importante. Invece è il tramite per elevarsi ed è il tramite tra te e il tutto, il tutto inteso come il divino. Ma non parlo di Dio, parlo dell’energia che ti circonda. E non puoi pensare che questo cazzo di mondo sia l’unica realtà.

Quest’energia di cui godiamo non è una cosa che finisce e va in putrefazione insieme a un corpo. Io credo che cambi solo la forma: c’è una parte di noi che è gassosa, non parlo di anima che vola, parlo di gas che per dinamica delle cose va verso l’alto.

C’è uno studio fatto da un russo che per tutta la vita ha preso la macchina fotografica, provando a modificarla all’infinito, e alla fine è riuscito a immortalare l’anima di un defunto che che esce. L’hanno detto anche al TG ma son quelle notizie che trovano il tempo che trovano e potrebbero far male alla gente. Noi siamo già impegnati a vivere bene, ed è un arte anche quella.