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Catharine Rossi

Se volete un mondo migliore, una discoteca è un buon posto per iniziare. Una conversazione sull'architettura radicale tra Catharine Rossi e Riccardo Benassi

L’artista Riccardo Benassi ha studiato e lavorato con gli architetti di Superstudio per la realizzazione di diversi progetti come Autostrada Verticale e Attimi Fondamentali, e ha più volte dichiarato la centralità del loro pensiero nel recentissimo progetto Techno Casa. A lui abbiamo chiesto di fare due chiacchiere con Piero Frassinelli, architetto e archivista del gruppo dei radicali toscani. Questo ci è sembrato un ottimo punto di partenza per far confrontare Riccardo anche con Catharine Rossi: insegnate alla Kingston University di Londra, ricercatrice e studiosa di design. Catharine ha pubblicato anche due libri che trattano il tema dell’Architettura Radicale “Between the nomadic and the impossible: radical architecture and the Cavart Group” e “The Italian Avant-Garde: 1968-1976″. Questi saranno i punti di partenza dell’intervista che finisce citando i Kraftwerk.


 

RICCARDO BENASSI: Nel tuo libro “Between the Nomadic and the Impossible” descrivi una sorta di utopismo architettonico basato sulla sottrazione invece che sull’aggiunta. Il focus di questa descrizione rimane l’approccio del gruppo dei radicali Cavart cui faceva parte Michele de Lucchi, mi interessava però volevo sapere se possiamo espandere questa idea anche ad altri architetti radicali. CATHARINE ROSSI: Sì, nella mia ricerca il concetto di sottrazione è stato centrale per la maggior parte degli architetti radicali per definire la loro utopia e non sono stata la prima a teorizzare questa tesi.

Cover del Catalogo edito dal MoMA per la mostra The New Italian Domestic
Cover del Catalogo edito dal MoMA per la mostra The New Italian Domestic

Nel 1972 Emilio Ambasz, il curatore italiano di: The New Domestic Landscape: Achievments and Problems of Italian Design, un’indagine e una mostra sullo stato del design italiano, tenutosi al Moma di New York, identificava esattamente questo: gruppi dell’architettura radicale come Archizoom e Superstudio, entrambi presenti in mostra, stavano proponendo un’idea di “utopia negativa” la quale ha come premessa l’eliminazione della società esistente piuttosto che la creazione di una nuova. Questo era un cambiamento molto significante per l’utopia del movimento moderno.

 

Questo gesto di sottrazione ha a che vedere con il fatto di essere diventati architetti senza – se non in casi eccezionali – aver progettato un’architettura fisica? Si potrebbe dire che arrestare la procedura di costruzione di un’architettura alla fase di progetto – che è una cosa tipica degli studenti che devono riflettere su quello che vorrebbero realizzare – ha dato all’architettura radicale un’eterna giovinezza perché enfatizzava solo le tesi progettuali.
C.R.: Questa è un’idea davvero interessante che non avevo considerato precedentemente. Certamente l’attività dei radicali respinge il concreto a favore di un’approccio più concettuale. Ettore Sottsass, Superstudio o gli Strum creavano collage, facevano film, fantasticavano architetture irrealizzabili, mettevano in scena spettacoli teatrali e workshop. Tutto questo aveva anche a che vedere anche con il contesto più ampio includendo il clima economico che offriva poche opportunità di costruire, la posizione politic dell’avanguardia e la natura del loro utopismo che abbiamo discusso poco fa. Il loro approccio può essere visto anche, come tu suggerisci, come un eredità della loro educazione al progetto. Molti gruppi, incluso Cavart e Gruppo 9999 si incontrano mentre erano studenti e molte delle loro attività si sono verificate poco dopo i loro studi, quindi quello che dici potrebbe essere un fattore chiave che influenza il loro modo di lavorare.

 
Credo che questo possa anche contrastare ogni tentativo di definire come “nostalgico” l’interesse crescente per i Radicali: ognuno di noi è stato – o è ancora – un teenager, uno studente; non si tratta solo di scavare nell’esperienza di qualcun altro ma piuttosto si tratta di rinvigorire le nostre radici, il nostro farci soggetto all’interno della società corrente… C.R.:Certamente! Per quanto banale possa suonare, tutti noi abbiamo la necessità di sperimentare, di ribellarci, di ‘trovare noi stessi’ quando siamo giovani – così come quando cresciamo. Questa è una delle ragioni per cui trovo così affascinanti i Radicali, e penso sia interessante parlarne oggi: suggeriscono metodologie operative alle quali le odierne generazioni di studenti e operatori politicamente impegnati possono ispirarsi.

suggeriscono metodologie operative alle quali le odierne generazioni di studenti e operatori politicamente impegnati possono ispirarsi

Quello da cui dobbiamo difenderci è comunque ogni nostalgia o tentativi mistificatori di questi architetti. Come ogni forma architettonica e ogni forma di utopismo, anche il loro era imperfetto e contraddittorio. Questo include la possibilità che non si accorsero del fatto che molti di loro vivevano attraverso una pratica di ispirazione Marxista che dava vita a commissioni commerciali, le quali potrebbero essere viste come un sostegno a quel preciso sistema che apparentemente tentavano di smantellare. Dal mio punto di vista, se vogliamo realizzare quei cambiamenti necessari – adesso come allora – e valorizzare al massimo le idee e le domande poste dai Radicali, dovremmo fondamentalmente prestare più attenzione ai difetti interni alle loro gesta.

 
Sono d’accordo con te, essere consapevoli dell’utopismo contraddittorio dei Radicali è un passo fondamentale in termini di valutazione della loro eredità concettuale. Ora vorrei concentrarmi sul tuo progetto in mostra nella sezione “Monditalia” della Biennale di Architettura di Venezia, “Space Electronic: Then and Now”. Puoi raccontarci qualcosa? C.R.:Mentre parliamo manca meno di un mese all’apertura e le sensazioni sono un misto di eccitazione e nervosismo. È stato un onore essere invitata a partecipare alla Biennale, e sono lieta che Rem Koolhaas e OMA abbiano risposto così positivamente alla mia idea.

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Space Electronic, interni

“Space Electronic: Then and Now” prende in esame una discoteca che è stata aperta nel 1969 dal Gruppo 9999, uno dei collettivi meno noti dell’Architettura Radicale. Tra la fine degli anni 60 e i primi anni 70 il club era incredibilmente sperimentale e progressivo, frequentato da un mix internazionale di architetti, artisti, attori, musicisti e creativi. Lo Space Electronic era una delle poche manifestazioni fisiche dell’Avanguardia Radicale e ancora oggi è poco conosciuto – almeno da una prospettiva britannica – il che lo rende molto allettante per una ricercatrice come me. Per la Biennale stiamo re-immaginando il club, per raccontarne la storia passata e presente. Non è solo la sua storia a rendere questo luogo affascinante, ma il fatto che sia attivo ancora oggi, gestito da due dei co-fondatori, anche se il club ha preso un taglio più commerciale che di ricerca.

 
Sembra molto emozionante! È entusiasmante il fatto che tu stia portando avanti un processo di attivazione e aggiornamento della storia – in modo da renderla utile per il presente – piuttosto che scriverne un racconto…
C.R.:Sì, mi sembra un buon modo di porre la questione. Come per tutti i progetti di “Monditalia”, mi sto concentrando non solo sulla storia architettonica, ma anche sul suo utilizzo, come di un veicolo capace d’interrogarsi sul suo significato in un contesto più ampio, italiano e internazionale; ri-esaminando le attività e considerando l’eredità delle generazioni degli anni 60 e 70 e chiedendosi a che punto sono oggi i luoghi di sperimentazione e le attività delle avanguardie. Per questo progetto ho la fortuna di collaborare con alcune persone di grande talento; tra questi Ben Kelly, il designer che sta dietro alla leggendaria discoteca Hacienda di Manchester, che ha lavorato con il suo studio sul progetto di installazione, l’artista Gilly Booth che è il regista del film che proietteremo, e il dj Mickey Moonlight che ha creato per noi una colonna sonora che unisce la musica di ieri e di oggi. Non vedo l’ora di vedere l’installazione in situ con gli altri progetti (molti dei quali si confrontano con temi simili) e sono curiosa di vedere le reazioni dei visitatori al nostro spazio. Sono anche consapevole del fatto che come un non-architetto e una non-italiana, sono estranea all’esperienza dello Space Electronic sia passata che presente. Chi sono io per raccontare la sua storia?